“Qui sono tutti matti, urlano, corrono, fra un pò dovrò salutare militarmente anche gli alberi del cortile che stanno sempre sull’attenti!” Questa la mia prima telefonata a casa.
Arrivai ad Aosta e alla stazione mi caricarono (bagagli senza armi) su un CL (prima esperienza di trasporto truppa) e già notai che gli alpini mi guardavano come uno sfigato.
Ed ecco varcata la soglia della Battisti.
All’accoglienza un tenente che incomincia a dubitare delle mie capacità vocali “invitandomi” ad aumentare di 70 dB il mio tono di voce e mi indirizza alla “vestizione” con relativo set da viaggio modello AUC.
Mi destinano alla gloriosa camerata 7 ma non ero ancora consapevole di questo destino di fama e gloria.
Ravano con il sacco a pelo, oggetto a me sconosciuto visto che la quota più alta raggiunta prima di allora erano i 700 m della collina torinese in giornata; ed è qui che prendo coscienza che ci sono altri derelitti che vagano da una branda all’altra e soprattutto uno di loro, Paolo Francese, mi fa capire subito il senso della solidarietà. Con pazienza mi spiega come piegare quel sacco informe per renderlo compatibile con lo zaino.
Ancora adesso gli son grato perché è stato il primo segno che ce la potevo fare, proprio grazie agli altri.
In seguito ho avuto modo di condividere con gli altri momenti difficili, così come lieti, per tutti quei mesi, stridendo con alcuni e trovando amicizia con altri, ma sempre con un prevalente sentimento di comunione, la 7 come camerata, la Prima come Compagnia, transustanziale con il 106 °, e in fine la SMAlp.
Andrea Orlini, il nostro esploratore, per me era un parametro come montagnino e dopo la Scuola mi sono avvicinato allo sci alpinismo e alla roccia grazie al suo esempio oltre all’amicizia con il Tenente Defilippi la Max del 102° con il quale, ritrovandoci, ho lavorato insieme e che mi ha guidato all’arrampicata, sempre, nei due casi, come mio Capo cordata.Con Carlo Tessore eravamo gli unici due (anche perché di Torino) ad aver avuto la fortuna di avere il conforto delle nostre fidanzate che a volte si accollavano il tragitto fino ad Aosta quando non potevamo andare in licenza.
Di allora ho vivo il ricordo di un forte senso di appartenenza che superava le incomprensioni o le differenze di esperienza e che mi ha permesso di crescere, capire la condivisione al di fuori delle vuote parole che oggi la definiscono.
il Capocamerata Elio Maina
Alla Smalp trovai lungo.
Eh, si, trovai proprio lungo.
Ci ero arrivato un mese esatto prima di laurearmi ed avevo poco più di 24 anni. Eravamo in pochi di quell’età, circa una decina su 150 e più. Il 106 era un corso giovane, a differenza del 105, in cui erano quasi tutti laureati. Forse avremmo dovuto andarci anche noi vecchietti, ma era già al completo.
Fatto sta che trovai lungo: svariati acciacchi mi costrinsero a saltare il giuramento, a non sparare con la pistola nell’unica occasione in cui lo si fece, a passare la licenza di Pasqua in ospedale, per una rapida operazione al naso. Ero anche uno dei più bassi (stavo nella seconda fila).
Devo ammettere anche che ero piuttosto imbranato. Foca, insomma.
Un episodio per tutti. Pochi giorni prima del giuramento mi era venuto un febbrone da cavallo ed ero stato messo a riposo branda. Questo finiva proprio il giorno del giuramento, ma io, che avevo saltato le prove generali, ero stato messo fuori schieramento.
I miei arrivarono il giorno prima, senza sapere che non vi avrei partecipato. Alla sera non mi sentivo troppo male e decisi quindi di uscire un paio d’ore per incontrarli. Non sapevo che non si poteva: il riposo branda era obbligatorio e non facoltativo, anche durante la libera uscita. Al rientro mi infilai a letto, come se niente fosse, ma qualcuno aveva segnalato la cosa all’ufficiale di compagnia e già al contrappello – con i toni urbani e caritatevoli che vi lascio immaginare – mi fu fatto capire che l’avevo combinata grossa.
Non basta: avevo letto nell’ordine di servizio, che pure non mi riguardava, che bisognava presentarsi in adunata con le ghette. Chissà cosa mi passò per la mente, mi presentai con le ghette e la scbt! Vedo ancora la faccia da ‘colpo apoplettico imminente’ del capitano Abrate, mentre con un filo di voce dice: “Levatemelo da davanti, portatelo via”!
A ripensarci oggi, non posso fare a meno di ridere, ma lì per lì, mentre tornavo mestamente in compagnia, pensai proprio che il mio corso finiva quel giorno.
Ed invece fui graziato. Dopo una rampogna memorabile per l’uscita illegittima della sera prima, ottenni pure il permesso di 36 ore come tutti gli altri.
E perché mai ci ero andato, allora, alla Smalp? Beh, se pensate che essere figlio di un ufficiale degli alpini, volontario in Etiopia e nella seconda guerra mondiale, pluridecorato, avere il primo cappello da alpino fatto su misura all’età di due anni ed essere nato il 4 novembre, nel trentanovesimo anniversario della Vittoria, non siano motivi sufficienti… non so proprio che altro dirvi.
In un modo o nell’altro, a calci e spintoni (me li davo da me, non fraintendete), alla fine ci sono arrivato. Quasi ultimo, ma la stelletta l’ho avuta anch’io. Non quella, però, regalata come consuetudine dal comandante di plotone.
Non lo sopportavo (mica ero l’unico…) e, pochi giorni prima della fine del corso, mi aveva proprio fatto imbestialire per un rimprovero non meritato. Non andai così alla bicchierata con tutti gli altri per la consegna della stelletta. Il giorno dopo, lo incontrai nel corridoio e mi disse: “Mitolo, l’aspettavo ieri sera. Come mai non è venuto”? – “Comandi” – gli risposi per l’ultima volta – “io bevo solo con gli amici” e lo lasciai a bocca aperta, incapace di replicare!
A distanza di quarant’anni non posso dire di andarne proprio orgoglioso, ma allora le reazioni erano più brusche e meno meditate e mi era parso giusto agire così.
* * *
Delle cento storie e dei mille aneddoti di quei cinque mesi, voglio ricordare un piccolo episodio verificatosi quasi alla fine del corso.
Avevamo compiuto l’ascensione finale, quella al Gran Paradiso.
Bellissima, faticosa ma di grande soddisfazione, guastata solo dal fatto che ci era stato impedito di toccare la cima, che pure i nostri esploratori avevano attrezzato con delle funi. Ci voleva troppo tempo, mi disse il capitano Abrate, al quale avevo manifestato il mio disappunto, e bisognava rientrare.
Eravamo partiti a notte fonda e tornammo al rifugio Vittorio Emanuele verso mezzogiorno.
Graditissima, quasi commovente sorpresa, il 107, il corso dei “figli”, ci aspettava schierato sull’attenti ed il loro coro intonò – se non ricordo male – “Signore delle cime”.
Erano venuti per il passaggio della stecca.
Presenziava la cerimonia un qualche generale, giunto comodamente in elicottero, che aveva fretta di tornare a casa: ecco perché non c’era stato il tempo di arrivare in vetta!
Insomma, stracchi morti (e famelici…) come eravamo, ci dovemmo mettere sull’attenti per tutta la cerimonia. Ricordo che faceva un gran caldo e che il sole era proprio a picco.
All’improvviso, uno dei nostri, che era in prima fila, a non più di un metro da me, svenne per un malore e si accasciò a terra. Che fare? Eravamo sull’attenti “formale”, non ci si poteva muovere. Meglio: nessuno aveva l’ardire di muoversi. Forse nessuno pensava nemmeno a muoversi. Si avvicinò uno dei tenenti e bisbigliò ai più vicini: “Fatelo sparire, tiratelo indietro”.
In un baleno, lo svenuto finì in fondo (dove presto si riprese), tutti in quella fila fecero un passo avanti e lo schieramento tornò perfetto come prima.
Ricordo molto bene cosa mi passò per la mente in quel momento.
Un buco nella fila.
Cinque mesi di sudore e lacrime (il sangue, per fortuna, ci era stato risparmiato), e se uno cadeva, era solo un buco nella fila.
Una riflessione amara e una lezione da ricordare per tutti quelli che vestono una divisa.
Paolo Mitolo
P.S. Al reparto le cose andarono molto meglio e mi congedai col lusinghiero giudizio di “eccellente”.